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L’inflazione USA sale ai massimi degli ultimi 39 anni

La decisione di Powell di ritirare la parola “transitorio” quando si parla di inflazione è decisamente tardiva ed insufficiente ormai: il Bureau of Economic Analysis (BEA) ha riferito che l’inflazione negli Stati Uniti è aumentata del 5,7% a novembre su base annua, segnando un aumento dello 0,5% da ottobre. 

L’indicatore non raggiungeva questo livello dal 1982 ed eliminando cibo ed energia dall’equazione, i prezzi sono aumentati del 4,7%, che segna ancora l’aumento più significativo dal settembre 1983.

Il BEA ha notato che i consumatori stanno spendendo di più per l’essenziale, mentre l’ amministrazione Biden promuove l’aumento dei salari senza rendersi conto che ciò contribuisce alla spirale salari-prezzi: i datori di lavoro pagano di più i propri dipendenti per tenere il passo con il costo della vita, mentre i costi salgono per le imprese e quindi anche per il consumatore.

Come ho spiegato più volte e da ormai molto tempo, la pandemia ha lasciato strascichi drammatici, non solo sotto il profilo sanitario, ma anche socio-economico: l’inflazione e l’aumento dei prezzi attuali ne sono un esempio emblematico.

Il prezzo del gas naturale, ad esempio, è aumentato di sei volte rispetto ad un anno fa e quello del carbone è cresciuto del 300% in poco tempo, mentre alcuni Paesi della Comunità Europea hanno già dichiarato di non avere le materie prime per far fronte al fabbisogno energetico nazionale.

Prezzo del gas naturale

Come sostengo da tempo, l’aumento dei prezzi non è un fenomeno transitorio, ma un trend che rischia di aggravarsi nei prossimi anni, dal momento che il lockdown ha bloccato per lungo tempo i trasporti internazionali di materie prime, determinando una scarsità di risorse che, a sua volta, ha causato l’attuale aumento dei prezzi e la conseguente inflazione mondiale.

Per contrastare una situazione che ritengo sia “sfuggita di mano” alle Banche Centrali, ritengo che la Fed adotterà un “approccio da falco” nel 2022 (a prescindere dalle attuali dichiarazioni) iniziando ad aumentare i tassi di interesse.

I Portafogli dei clienti, di conseguenza, dovrebbero essere gestiti considerando questo scenario, che avrebbe ovviamente conseguenze negative per tutti gli investimenti obbligazionari, mentre continuerebbe a privilegiare la parte equity, nonostante le attuali quotazioni ed a prescindere dall’eventuale tapering della Fed: anche se a prima vista può sembrare un “controsenso”, da un punto di vista economico, la storia ci insegna che i mercati equity salgono in presenza di un aumento dei tassi di interesse.

Vanguard ha svolto questo esercizio, analizzando qual è stato il comportamento dello S&P 500 durante tutti i periodi degli ultimi 50 anni, in cui la Fed ha incrementato i tassi di interesse: i risultati dello studio mostrano che, negli ultimi 50 anni, non si evidenzia alcun crollo del mercato azionario durante i cicli di aumento dei tassi di interesse.

Al contrario, dal 1967 ci sono stati 11 periodi in cui la Fed ha aumentato il prezzo del denaro, in 10 di questi, la redditività generata dall’indice S&P 500 è stata positiva: solo nel periodo tra febbraio e luglio 1974 l’indice offriva rendimenti negativi (-15%), mentre in media, la redditività annua netta offerta dall’indice S&P 500 durante questi periodi di rialzo dei tassi d’interesse è stata del 10%, in linea con quella registrata dal 1925 al 2017.

Il 2022 sarà un anno molto “sfidante” e per gestire i Portafogli dei nostri clienti in modo non solo indipendente, ovvero senza alcun conflitto di interesse, ma anche con grande professionalità e competenza, sarà indispensabile fare delle “scelte di investimento mirate ma anche coraggiose” e comunque decisamente fuori dal coro.

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